03/11/10

Walter Mauro, Arrigo Polillo e la Storia del Jazz.

Walter Mauro probabilmente lo ricordano bene quelli del liceo San Leone Magno, dove insegnava alla metà dei '70 e forse ha cominciato a stimolare i suoi allievi alla critica musicale (infatti da lì  sono partiti Caffarelli, Baiata, Guzman eccetera, che hannno monopolizzato la critica musicale con il Ciao2001).

Per coloro che hanno la mia età, o giù di lì, il nome di Walter Mauro, come quello di Arrigo Polillo e suo fratello, e ancor più quello di Franco Fayenz, sono a tutti noti da almeno 40 anni, in campo si critica, libri e riviste jazz; ricordo a tutti il mitico Musica Jazz, diretto per 25 anni da Arrigo Polillo, fino alla morte, poi continuato dal fratello.
Ho anche un ricordo personale di Polillo, una lettera che gli inviai nel '72, poi pubblicata, in cui criticavo il suo modo di trattare i musicisti e l'ambiente jazz del tutto da un piano superiore a quello del mondo della Pop music, che con le sue mille declinazioni, portava sicuramente aspetti interessanti di contaminazione musicale che anche gli stessi musicisti jazz avevano iniziato a seguire a partire da Miles Davis nel '68 e fino ai nostri giorni.
In fin dei conti, argomentavo nella lunga e ponderosa lettera, il Jazz non nasce da una serie incredibile di contaminazioni praticamente mondiali?  Se è pur vero che la sua essenza è la base ritmica fatta da rudimentali strumenti in pelle ed ossa di animali, nel cuore dell'Africa, non si può negare che il Jazz cui ci si riferisce comunemente, non è nemmeno lontanamente quello di alcuni dischi degli Africa Messengers, che spesso cito nelle mie rare conferenze e faccio anche ascoltare, tra l'incredulità dei ragazzi e presenti in genere (non esperti di jazz, chiaramente), che invece mi chiedono cosa c'entra quella musica con Miles Davis o Chick Corea. La miglior risposta, me l'ha fornita proprio Miles, in una breve chiacchierata all'albergo durante la sua ultima esibizione in Italia:  "quella dei Messengers è stato un tentativo di riportare indietro una macchina che è arrivata fino a qui, con me e molti altri. Un tentativo nobile, ma del tutto inutile".

Eppure, durante i pomeriggi al Marquee, in quelle strane giornate londinesi, dove l'happening era consuetudine, molta gente che poi sarebbe divenuta famosa pochi anni  dopo (penso solo ai Pink Floyd per tutti), i Messengers li hanno ascoltati bene e spesso la musica dei Floyd almeno in Ummagamma ha riportato fuori quel senso tribale, quel suono costruito solo con elementi percussivi, che in seguito è stato ripreso anche da molti musicisti di area sperimentale, penso ai loop di Terry Riley (da giovane presente sulla scena di Parigi, amico anche di Stockhausen, fino a che non cambiò direzione con l'incontro a New York di La Monte Young e la minuta Yoko Ono, che si arrampicava su dei fili invisibili, a inscenare i cluster di piano.

Restiamo fermi a Terry Riley, che conosco bene, e ironicamente, lui americano ha seguito un percorso musicale che è poi sfociato nella sperimentazione elettronica, che riconosceva nella Germania post bellica, la sua sede ideale e il suo trono.
Possiamo considerare Riley un musicista Jazz? Vi rispondo subito di si, a patto che non lo si limiti al Jazz come inteso sopra dai puristi come Polillo e Mauro, ma piuttosto nella accezione di Miles Davis. Inoltre il lavoro di Riley testimonia una continua ricerca di suoni che mantengono al centro un concetto: lo spazio sonoro, la vastità, l'immaginifico, riempito di note, in circolo, che si riflettono in modo caoticamente ordinato su se stesse.
Ma chiaramente, la musica di Riley non è solo jazz ma anche musica sperimentale, e in un certo qual modo, una pop music colta, un termine contraddittorio lo capisco ma non dispongo di altri termini per descrivere la musica ottenuta con l'impiego di nastri registrati che scorrono in loop e aggiunta di sassofoni e percussioni.
Non credo che la musica di Riley abbia mai ottenuto l'attenzione dei milioni di individui che ascoltano la musica del re del Pop-Rock: Michael Jackson, né forse di coloro che ascoltano gli Oasis o un tempo gli Who eppure, per certi aspetti, una componente di Pop music non mi sento di escluderla, né credo che Riley la esluda a priori, pur nella sua sperimentazione che durante il 1964 era pronta ad uscire su disco ma ritardata per l'impossibilità di essere minimamente considerata dal pubblico.
Il 1964, l'anno dell'inizio della beatlesmania, quello in cui milioni di ragazzette si affollavano nei teatri dove si esibivano i Beatles, pagando fior di quattrini, accompagnate dalle mamme, per strillare e piangere di fronte ai loro idoli, senza neanche ascoltarne la musica.
Eppure, per molti aspetti, possiamo chiamare sia la musica dei Beatles che quella di Riley, Pop music; cioè musica popolare, nel senso di una radice popolare, dal basso, dalla parte del popolo. Non è colpa di Riley se il suo approccio lo porta ad essere apprezzato solo da una piccola fetta di pubblico ma pure, tutto l'approccio di Riley è del tutto privo di segni alterità, di voler creare una musica altera e distante dal popolo e dalla quotidianità.

Ecco che ritorno alla frase di Miles Davis e ora credo sia più comprensibile: se tutto parte da canti e ritmi tribali in Africa (ma non solo), perché ritornare a quel punto, quando la storia di ogni musicista è proprio il contrario, cioè proggredire verso una forma e un'espressione che tiene conto sia della tecnologia, che dei mutamenti culturali? In fondo, dopo Kind Of Blue del 1959, Miles aveva raggiunto timbri e suoni che certamente non si erano mai ascoltati prima, e nella memoria di molti musicisti suoi coetanei ma anche più giovani (Marsalis), quel LP rappresenta un passaggio fondamentale del Jazz, che lo trascina 20 anni in avanti, in un solo colpo.
Eppure, bastano pochi anni, e arriva il Free Jazz più aperto, quello dei Sonny Rollins, Don Cherry e altri ancora, che si uniscono sul versante rock ai nascenti Beatles, Rolling Stones, si affaccia un nuovo tipo di pop music, che unisce elementi della musica folk a quelli blues e al vecchio rock dei '50, al punto che anche Kind Of Blues, già dopo pochi anni sembra una roba vecchia, ormai passata. Eppure, se ascoltiamo ancora oggi, come mi capita spesso di fare, quel disco meraviglioso e magico, ci rendiamo conto che a quel tempo, nessuno aveva ancora fatto qualcosa di così intimo, straziante e profondo nella Jazz music.

Eppure, lo ripeto, la musica va avanti, si introducono alla metà dei '60 i Wah-Wah, gli amplificatori che includono una cabina di pilotaggio e modifica del suono, e via di seguito. Davis si rende conto che quel suono che ascolta in certi locali dove si esibiscono musicisti blues, che non disdegnano di approcciare anche il rock, smorzandolo e diluendolo in una miscela dai sapori misti, spuri ed elettrici, dove larsen e feedback sono frequenti, può essere la base da cui ripartire per costruire il suono degli annni '70: questa volta amplificato, elettrificato, avviluppato in una serie di echi e timbri, che si fondono con le percussioni e i fiati. In fondo è la creazione di un tappeto sonoro elettrico, da cui prendono forma tutte le figure musicali scandite da ritmi nervosi, ossessivi, ma mai sopra le righe.

Ed eccolo aprire alla fine dei '60 alla musica amplificata, circondato da uno stuolo di musicisti eccelsi ma quasi sconosciuti nell'ambiente ristretto del jazz. Ci sono già dal '67 dei brani che non escono su disco ma che raccolti in seguito  (Circle in the Round), fanno capire al tremendo sforzo per passare da una base classica, tipica, direi stereotipata, a quella elettrica, mai tentata da nessuno prima, anzi aborrita e criticata.
Ecco per me, la storia del Jazz, se dovessi raccontarla in due parole almeno per gli ultimi 40 anni. Ma naturalmente, per  chi scrive un libro dedicato alla storia del Jazz, ci vuole ben altro: documentazione ed ispirazione, tempo e dedizione e l'intento di rimanere sempre fedele alla realtà dei fatti, alla loro importanza e saperli collocare nel giusto contesto cronologico e dimensionale.

Oltre al volume di Mauro, c'è una serie di cassette che pubblicò molti anni  fa Arrigo Polillo, La storia del Jazz del 1976, che ancora oggi conservo, e che renderò disponibili in mp3.
In ogni caso, l'unico modo di capire e penetrare la musica Jazz è ascoltarla e magari provarsi a suonarla, anche se come sempre accade, musicisti e critici non percorrono le stesse strade e spesso divergono molto nei loro concetti.



Miles davis (part2fin) a different kind of blue - electric -
Walter Mauro = La Storia Del Jazz