25/10/10

La Lobby di Lotta Continua,giornalisti,editori e spioni.

Come ripeto, Travaglio, Gomez, Barbacetto eccetera, non sono per me interessanti perché ritengono di assolvere il loro
compito giornalistico nello spulciare le carte processuali e intercettazioni. Al contrario, come coetaneo di Viale, penso che la verità non sta scritta da nessuna parte e quindi parlo solo di quello che conosco direttamente.
Non di meno, penso di Sofri, Viale, Rostagno, per non parlare di Bompressi e Pietrostefani, che erano dei personaggi allucinati, dotati di dispotismo, assolutismo, scarsa partecipazione e carenza di democrazia e capacità di ascolto. Che poi, come asserisce Fulvio Grimaldi, Sofri era una colonna della Cia in Lotta Continua, non ho elementi per asserirlo, ma dubbi ne nutro e sospetti di contatti e giochi incrociati ne ho avuti e non pochi, a prescindere dallo stampatore del giornale.    Prima parte  QUI 


Di Calabresi credo che sia stato un personaggio pessimo, che abbia cercato di manovrare le indagini e le piste per portarle sull'area anarco socialista, come quella di Pinelli, che faceva regali di libri e cartoline di auguri a Natale a Calabresi, ricambiato.
Il vergognoso articolo del Corriere della Sera, quello su cui scrivono i Rizzo e Gian Antonio Stella oggi, allora uscì con una cronaca degli avvenimenti che ancora oggi grida vendetta, e se coloro che lo hanno avallato sono morti in modo orribile, se mai fosse accaduto, mai avrebbero meritato di meglio. Allora ricordo che leggendo quegli articoli sul Corriere (ma anche tutti gli altri grandi quotidiani), mi sentii veramente come un estraneo, un marziano, un alieno che era sceso sulla terra e non capiva cosa stava accadendo. Eppure, mi dissi, migliaia e migliaia di persone si leggono questo articolo su Pinelli che si è divincolato e gettato nel vuoto, mentre sorseggiano il caffè al bar o durante la pausa al lavoro o sul divano a casa, senza fare una piega, cioè bevendosi il fatto che messo alle strette, non aveva potuto resistere alla sua responsabilità schiacciante (di aver messo le bombe a Piazza Fontana, Banca dell'Agricoltura) e si era suicidato gettandosi nel vuoto.

Quello che mi preme ricordare è che Pinelli non aveva niente a che vedere con il comunismo come lo intendeva il Pci e noi, né con Lotta Continua: era un anarchico-socialista, un ferroviere che frequentava il bar dei ferrovieri, un circolo del dopolavoro, con pensionati e sindacalisti, gente del tutto tranquilla. Calabresi, ritornato dall'America dallo stage presso la Cia, probabilmente ricevette pressioni o indicazioni di ricercare non tra la parte di destra ma di far gioco contro il Pci e cercare nell'area dell'autonomia di sinistra. La persona scelta fu Pinelli, per le sue idee così radicali, le sue manifestazioni sindacali e le più volte in cui era stato chiamato per presentarsi alla centrale, proprio da Calabresi. Molti confusero poi Pinelli con Feltrinelli, che era davvero un rivoluzionario miliardario bombarolo (portò in Germania nel '68 una bomba a Rudi Dutschke, che la infilò nella tracolla dove trasportava sua figlia).

In questo botta e risposta tra Tavaglio, che all'epoca dei fatti aveva forse 5-6 anni, e Guido Viale (c'era anche Silvio Viale), che oggi, chissà come, è un economista di pregio e però è anche membro del Comitato tecnico-scientifico dell'Agenzia nazionale per la protezione dell'ambiente (ex Anpa, ora ISPRA) e magari si intasca un bel poco di soldini, emerge a mio avviso di nuovo tutta la saccenza, l'onniscenza di quegli ex miei compagni di ventura, che mai hanno fatto i conti con il loro passato, se non dopo essere passati in Prima Linea e poi condannati.
Per fortuna, dopo la scelta di appoggiare il Pci del 1975 cominciai a prendere le distanze e già al congresso di RIMINI, mi sentivo già fuori da LC.





MARCO TRAVAGLIO A PAOLO FLORES D’ARCAIS, DIRETTORE DI MICROMEGA SULLA TAVOLA ROTONDA SU LOTTA CONTINUA.

Caro Paolo,
ho letto la tavola rotonda sul n. 8/2006 di MicroMega fra Erri De Luca, Giovanni De Luna, Franca Fossati e Guido Viale a proposito di Lotta continua. E sono rimasto agghiacciato nel leggere queste testuali parole di Viale: «Lotta continua, e non altri, ha portato Calabresi in processo, perché dal processo emergessero le sue responsabilità. Chiunque l’abbia ucciso ha impedito la conclusione di un processo che, per lui, era chiaramente perdente. E che era lo strumento fondamentale della nostra denuncia delle responsabilità politiche e gestionali dirette di larga parte dell’apparato statale». Si tratta di palesi falsità, che uccidono un’altra volta il commissario Luigi Calabresi, assassinato il 17 maggio 1972 da un commando di Lotta continua, come accertato definitivamente da ben due sentenze della Corte di Cassazione (dibattimento e processo di revisione).

Il processo per la morte dell’anarchico Giuseppe Pinelli non nasce da una denuncia di Lotta continua. In prima battuta l’indagine viene aperta d’ufficio dalla magistratura milanese, che il 3 luglio 1970 archivia il caso come suicidio («impromovibilità dell’azione penale»). Ma nell’ottobre 1971 la procura accoglie la richiesta della vedova Pinelli di riesumare la salma del marito e avvia una nuova indagine per omicidio a carico di Calabresi e dei cinque militari che quella sera interrogarono Pinelli. Indagine che durerà quattro anni, affidata al giudice istruttore Gerardo D’Ambrosio (iscritto a Magistratura democratica, lo stesso che fin dall’inizio ha seguito la pista nera per la strage di piazza Fontana, incurante dei depistaggi dei servizi segreti).
Lotta continua non denunciò mai Calabresi alla magistratura. Anzi, fu denunciata da Calabresi per l’infame campagna del suo giornale che lo calunniò per anni come l’assassino di Pinelli. Il direttore di Lotta continua Pio Baldelli fu poi condannato per diffamazione ai danni di Calabresi. Quanto alla morte di Pinelli, è falso che Lc attendesse con ansia il verdetto dei giudici su Calabresi. Il giornale Lotta continua non perdeva occasione per scagliarsi contro la «giustizia borghese», preferendole quella «del popolo» e «del proletariato» di cui anticipò fin da subito la sentenza: cioè la pena di morte per il commissario.
In quei deliranti articoli si legge, fra l’altro: «Calabresi, sei tu l’accusato. […] Le nostre armi sono altre, più difficili, faticose, pericolose, ma infinitamente più efficaci. È l’organizzazione della forza e dell’autonomia del proletariato che farà giustizia di tutti i suoi nemici. Dell’assassinio di Pinelli abbiamo detto a chiare lettere che il proletariato sa chi sono i responsabili e saprà fare vendetta della sua morte» (14-5-1970).

«Questo marine dalla finestra facile dovrà rispondere di tutto. Gli siamo alle costole, ormai, ed è inutile che si dibatta come un bufalo inferocito. […] Qualcuno potrebbe esigere la denuncia di Calabresi per falso in atto pubblico. Noi, più modestamente, di questi nemici del popolo vogliamo la morte» (6-6-1970).
«Siamo stati troppo teneri con il commissario di pubblica sicurezza Luigi Calabresi. Egli si permette di continuare a vivere tranquillamente. […] Il suo volto è diventato abituale e conosciuto per i militanti che hanno imparato a odiarlo; la sua funzione di sicario è stata denunciata alle masse che hanno incominciato a conoscere i propri nemici di persona, con nome, cognome e indirizzo. È chiaro a tutti, infatti, che sarà Calabresi a dover rispondere pubblicamente del suo delitto contro il proletariato. E il proletariato ha già emesso la sua sentenza: Calabresi è responsabile dell’assassinio di Pinelli e Calabresi dovrà pagarla cara. […] Il terreno, la sede, gli strumenti della giustizia borghese sono del tutto estranei alle nostre esperienze, alle nostre lotte, alle nostre idee, e non è certamente dalla legge dello Stato capitalista che ci attendiamo la punizione di un suo servo zelante; non dai giudici “progressisti e onesti”; non da un dibattimento i cui codici, norme e regole, creati dalla borghesia per controllare gli sfruttati, non possono essere utilizzati dai proletari, ma solo da questi distrutti. […] Ma dentro il tribunale, nelle strade e nelle piazze, il proletariato emetterà il suo verdetto, lo comunicherà e ancora là, nelle piazze e nelle strade, lo renderà esecutivo. Calabresi ha paura ed esistono validi motivi perché ne abbia sempre di più. […] L’imputato e vittima del secondo [processo] è già da tempo designato: un commissario aggiunto di ps, torturatore e assassino: Luigi Calabresi. Sappiamo che l’eliminazione di un poliziotto non libererà gli sfruttati; ma è questo, sicuramente, un momento e una tappa fondamentale dell’assalto del proletariato contro lo Stato assassino» (6-6-1970). «Calabresi, assassino, stia attento. Il suo nome è uno dei primi della lista» (6-5-1971). È falso, poi, che chi ha ucciso Calabresi l’abbia salvato da sicura condanna. Per il semplice motivo che l’indagine continuò anche dopo la sua morte e si concluse tre anni e mezzo dopo, il 27 ottobre 1975, con un proscioglimento in istruttoria con formula piena firmato da D’Ambrosio. Il giudice avrebbe potuto archiviare il caso con la formula pilatesca del «non doversi procedere per morte del reo». Invece volle andare a fondo, ricostruendo quello che era accaduto la sera del 15 dicembre 1969 all’ufficio politico della questura di Milano, dalla cui finestra Pinelli era precipitato.
Anzitutto accertò che non ci fu alcun pestaggio di Pinelli durante l’interrogatorio (i giornalisti Aldo Palumbo dell’Unità e Benito Sichiero del Giorno presenti in quelle ore nel corridoio dell’ufficio politico non udirono alcun rumore sospetto). Ma soprattutto accertò che, quando Pinelli precipitò, Calabresi non era nella sua stanza, ma dall’altra parte del palazzo. Nella stanza c’erano il tenente dei carabinieri Lograno e i brigadieri Panessa, Mucilli, Mainardi e Caracuta (anch’essi poi indagati per omicidio insieme al commissario).
Scrisse D’Ambrosio nella sentenza: «Imputazione di omicidio volontario: proscioglimento perché il fatto non sussiste. Ipotesi di suicidio: possibile, ma non verosimile. Ipotesi di malore: verosimile. Ipotesi di lancio volontario di corpo inanimato: assoluta inconsistenza». Insomma, non solo Calabresi non aveva ucciso Pinelli, ma non c’era stato alcun omicidio. Il suicidio era la tesi della procura. D’Ambrosio optò per il malore: l’anarchico non aveva alcun movente per togliersi la vita, anche se aveva fornito un alibi falso per non rivelare con chi si trovava la sera di piazza Fontana. E il fatto che chi lo interrogava gli avesse fatto credere che Pietro Valpreda aveva confessato di aver partecipato alla strage non era un buon motivo per indurlo a uccidersi.
Che cos’accadde dunque quella sera? «Pinelli», scrive D’Ambrosio, «si avvicinò alla finestra-balcone e aprì il battente in maniera assolutamente normale, come se volesse scuotere la cenere della sigaretta o prendere una boccata d’aria». Si affacciò, ma fu colto da malore e precipitò nel vuoto: non per un «malore passivo» (uno «svenimento»), ma «attivo» («un’alterazione del centro dell’equilibrio cui non segue perdita del tono muscolare e cui spesso si accompagnano movimenti attivi e scoordinati»). Era digiuno, stanco per l’interrogatorio (era in questura da tre giorni), forse turbato per l’alibi falso.
La parte civile, in subordine, accusava Calabresi di omicidio colposo, per non aver fatto sorvegliare strettamente Pinelli. Ma per il giudice il gesto dell’anarchico fu improvviso e inatteso, dunque il commissario è innocente anche per quel reato:«escluso che fosse nel suo ufficio al momento della precipitazione, egli va prosciolto perché il fatto non costituisce reato».
La sentenza della «giustizia borghese» arrivò tardi: 41 mesi prima, la «giustizia proletaria» aveva eseguito con due colpi di revolver la condanna a morte dell’innocente, già emessa da tempo. Lotta continua, a cadavere ancora caldo, festeggiò con un comunicato: «L’uccisione di Calabresi è un atto in cui gli sfruttati riconoscono la propria volontà di giustizia». È troppo chiedere a questa gente di vergognarsi e tacere?

A quanto pare Viale non pensa neanche un secondo a tacere.



GUIDO VIALE RISPONDE A TRAVAGLIO CHE LO ACCUSA.
Le citazioni relative alla campagna promossa da Lotta continua tra il 1969 e il 1972 contro il commissario Calabresi, raccolte con puntiglio e pignoleria da Marco Travaglio, sono un documento orribile dell’aggressività e dell’irresponsabilità di un linguaggio che ha caratterizzato in quegli anni sia Lotta continua che molti altri gruppi della sinistra rivoluzionaria.
Ma quelle espressioni non sono una prova del disinteresse di Lotta continua per le vicende giudiziarie, che abbiamo sempre seguito con la massima attenzione; e, meno che mai, possono essere addotte a prova della colpevolezza di Lotta continua, o di una sua componente.

Se non altro, per una questione di buon senso: un’organizzazione di migliaia di persone che operano alla luce del sole non annuncia per anni un intento omicida se ha effettivamente l’intenzione di attuarlo. Il fatto che continui a gridarlo dovrebbe anzi essere la prova che quel gruppo non si immagina neppure che la cosa potrebbe effettivamente accadere. Invece, ben prima di Marco Travaglio, quelle frasi sono state utilizzate dalla pubblica accusa per supplire alla mancanza di prove della colpevolezza di Lotta continua: cioè di riscontri al racconto contraddittorio e sconclusionato di Leonardo Marino.
Occorre aggiungere – sono passati quasi quarant’anni, e molti non ne sanno quasi niente – che in quegli anni quel linguaggio era moneta corrente non per caso. Era un modo, al tempo stesso ingenuo e irresponsabile, di affrontare un clima di terrore innescato nel paese non certo da Lotta continua, ma dalla strategia della tensione. A partire dal 1969 sono decine le stragi tentate o perpetrate in Italia da organizzazioni di destra, con la complicità, a volte molto estesa, di apparati dello Stato; per lo più con l’intento di attribuirne la responsabilità alla «sinistra rivoluzionaria» e, in diversi casi, proprio a Lotta continua.
Solo per citare quelle andate «a buon fine», abbiamo avuto piazza Fontana, Gioia Tauro, Peteano, via Fatebenefratelli, via Bellotti, il carcere di Alessandria, il treno Italicus, piazza della Loggia, Fiumicino, San Benedetto Val di Sambro, la stazione di Bologna; fino a che il terrorismo di sinistra, suscitato da quel clima – altri paesi, che non hanno avuto «stragi di Stato», hanno anche avuto molto meno terrorismo – e debitamente infiltrato, non ha preso il loro posto per mantenere il paese in uno «stato di eccezione».
Per nessuna di quelle stragi, a partire dalla prima, quella di piazza Fontana, si è arrivati alla condanna penale degli organizzatori e dei mandanti – è volato, a volte, qualche straccio – nonostante che su molte di esse si sappia ormai quasi tutto. Ed è stata la magistratura italiana, e non altri, a trascinare per l’Italia, nel corso degli anni, il processo per la strage di piazza Fontana – da Milano a Roma, poi di nuovo a Milano, poi a Catanzaro, poi a Bari; e poi ancora a Milano: sempre passando attraverso la Cassazione – pur di salvare dalla condanna i colpevoli.
Proprio questa vicenda giudiziaria, e quelle analoghe – pensiamo anche ai cinque processi per il rapimento di Aldo Moro – dovrebbero rendere più cauto Marco Travaglio nel prendere come oro colato, e senza alcun vaglio critico, le sentenze della magistratura e, soprattutto, gli atti giudiziari delle procure su cui è andato costruendo la sua fortuna editoriale; in particolare per vicende altrettanto ingarbugliate – dodici dibattimenti; quasi trenta sentenze e ordinanze – e strettamente legate alle vicissitudini giudiziarie della strage di piazza Fontana, come il processo per l’omicidio del commissario Calabresi.
Tanto più che le sentenze di condanna di Sofri, Bompressi e Pietrostefani in Cassazione non sono due, come sostiene Travaglio, ma una sola: il processo di revisione non si è mai svolto, in quanto la sentenza con cui si è concluso quel dibattimento, pubblicata il primo di aprile (pesce di aprile!) e confermata in Cassazione, si è limitata a dichiarare, dopo due mesi di udienze, l’inammissibilità della revisione. Eppure quello era un processo che la Corte di Cassazione aveva ordinato per ben tre volte di fare, rigettando per due volte ordinanze in contrario dei giudici di Milano e Brescia. Morale: chi la dura la vince. Come per piazza Fontana.
E occorre anche aggiungere che la sentenza di Cassazione che ha decretato la condanna definitiva di Sofri, Bompressi e Pietrostefani è intervenuta dopo ben tre reiterazioni del processo di appello e una piena assoluzione di tutti gli imputati, successivamente annullata con una «motivazione suicida»: cioè con un imbroglio. Cose che succedono solo in Italia.
Ma veniamo al dunque. È stata Lotta continua a portare il commissario Calabresi in tribunale, costringendolo con la sua campagna – e, purtroppo, con un linguaggio che non ha giustificazione; ma che era così truculento perché aveva proprio questo obiettivo e questa motivazione – a querelarla. Marco Travaglio dovrebbe sapere che il contrario non poteva avvenire, perché Lotta continua non aveva alcun titolo per denunciare in sede giudiziaria il commissario. Ma se non fosse stato per quella campagna e per quella querela, l’omicidio di Pinelli sarebbe rimasto archiviato per sempre e probabilmente scomparso dalla memoria pubblica: «fatto accidentale» (una specie di incidente automobilistico), aveva decretato il giudice Antonio Caizzi; lo stesso che ritroveremo presidente del tribunale di Venezia che ha condotto il mancato processo di revisione per l’omicidio del commissario.
Le vicende giudiziarie relative al processo contro il commissario Calabresi innescate dalla richiesta di riesumazione presentata da Licia Pinelli sono successive a quella campagna e alla querela del commissario; e non avrebbero trovato spazio senza di essa. In compenso la querela del commissario Calabresi contro Lotta continua si era rivelata un vero boomerang e proprio per questo il querelante aveva voluto interrompere quel processo con un sistema – la ricusazione del giudice: un istituto giudiziario allora inusuale, ma in anni recenti largamente utilizzato dagli avvocati di Berlusconi, giustamente invisi a Travaglio – e una motivazione che a nessun altro mortale sarebbe mai stato concesso di usare: una affermazione de relato del suo avvocato difensore!
Quanto al proscioglimento del commissario dopo la sua morte, ritengo più che legittimo, dato il garbuglio giudiziario costruito dalla magistratura, che ciascuno si tenga l’opinione che si è fatto sia sulla colpevolezza o meno di Calabresi per la morte di Pinelli, sia sulla colpevolezza o meno di Sofri, Bompressi e Pietrostefani per la morte del commissario. Ma trovo che l’avallo dato alla sentenza del giudice D’Ambrosio sul «malore attivo dell’anarchico Pinelli» sia una prova dell’inattendibilità di Travaglio. Il «malore attivo» dell’anarchico, trattenuto e interrogato illegalmente per tre giorni in questura per incastrare Pietro Valpreda, malore che lo avrebbe proiettato fuori da una finestra del quarto piano, spalancata per puro caso in pieno inverno, è un apax legómenon, cioè una sindrome che non trova riscontri né precedenti nella letteratura medica; mentre i casi di anarchici buttati giù dalle finestre delle stazioni di polizia sono purtroppo ricorrenti. Volete altre prove di inaffidabilità di Marco Travaglio? Anni fa ha scritto sul Borghese (una rivista congeniale al suo modo di pensare) che la sentenza di Cassazione che aveva annullato le condanne di primo e secondo grado di Sofri, Bompressi e Pietrostefani non era stata scritta dal giudice naturale, ma era stata redatta e imposta da Renato Squillante: un giudice potente, allora sotto processo e poi condannato per corruzione. Aveva altresì scritto – Travaglio – che Bompressi «aveva confessato», per poi ritrattare solo dopo una visita in carcere di Marco Boato. Evidentemente le prove a carico degli imputati e della «lobby di Lotta continua» gli sembravano, come sono, insufficienti; e per questo aveva deciso di aggiungere qualcosa di suo. In due confronti pubblici ho chiesto a Marco Travaglio quali fossero, se non le prove, per lo meno gli indizi di affermazioni così gravi. «Fonti mie riservate che non rivelo», ha risposto. A fare giornalismo così sono capaci tutti.

REPLICA FINALE DI TRAVAGLIO.



Non entro nel merito delle opinioni espresse da Viale, mi limito a qualche precisazione sui fatti.

1) La magistratura milanese ha fatto di tutto per scoprire e condannare i colpevoli di piazza Fontana. In origine fu proprio Gerardo D’Ambrosio il primo a battere la pista nera, prima che il processo venisse scippato a Milano, trasferito a Catanzaro e depistato dai servizi. Alcuni anni fa, grazie ad alcuni pentiti della cellula ordinovista veneta, la Procura di Borrelli e D’Ambrosio riaprì il processo e fece rinviare a giudizio Delfo Zorzi e Carlo Maria Maggi, che furono condannati in primo grado. In appello ci fu invece un’assoluzione per insufficienza di prove, confermata dalla Cassazione, che però stabilì che era certa la pista nera e che nella strage erano coinvolti sicuramente Freda e Ventura, che purtroppo non potevano essere riprocessati essendo già stati assolti a Catanzaro.
2) Il processo di revisione sul delitto Calabresi si svolse regolarmente alla Corte d’Appello di Venezia, dove la difesa degli imputati presentò le sue «nuove prove» e i nuovi «testimoni», e dove fu reinterrogato il pentito Marino. Alla fine però i giudici ritennero che le nuove prove non fossero tali e confermarono le condanne di Sofri, Bompressi, Pietrostefani. Verdetto poi reso definitivo dalla Cassazione.
3) La cosiddetta motivazione «suicida» è in realtà una sentenza redatta da un giudice estensore che non condivideva l’assoluzione, fatto fisiologico piuttosto frequente nei processi penali, e non un «imbroglio» (che presuppone il dolo, sempre escluso in sede sia disciplinare sia penale).
4) Non è vero che «il giudice Antonio Caizzi lo ritroveremo presidente del Tribunale di Venezia che ha condotto il mancato processo di revisione». Il processo non fu «mancato». Si svolse a Venezia solo perché, dopo che la Corte di Milano aveva bocciato l’istanza di revisione, nel ’98 il parlamento varò una legge ad personam per Sofri & C. che consentì loro di rivolgersi a Brescia (altra bocciatura) e finalmente a Venezia (accoglimento). Non dinanzi al Tribunale, ma alla IV sezione della Corte d’Appello. Che non era presieduta da Caizzi, ma da Silvio Giorgio (giudici a latere Antonio De Nicolo e Umberto Zampetti). Caizzi era il procuratore generale, ma non si occupò mai del processo: se ne occupò il sostituto Gabriele Ferrari, che diede parere favorevole alla revisione (definendola «ineludibile»), ma dopo mesi di istruttoria dibattimentale concluse che le nuove prove non provavano nulla. Furono comunque i giudici Giorgio, De Nicolo e Zampetti a confermare le condanne.
5) Non c’è nulla di opinabile sulla colpevolezza di Calabresi per la morte di Pinelli: comunque la si pensi sulla sentenza D’Ambrosio, è assolutamente certo che Calabresi, quando Pinelli precipitò, non era nella sua stanza.
6) Non ho mai scritto che «la sentenza di Cassazione che aveva annullato le condanne di Sofri, Bompressi e Pietrostefani non era stata scritta dal giudice naturale, ma era stata redatta e imposta da Renato Squillante» (mi riferivo a una memoria difensiva anonima distribuita ai membri del collegio). E non ho mai scritto che «Bompressi aveva confessato, per poi ritrattare solo dopo una visita in carcere di Marco Boato». Ho invece scritto ciò che sa chiunque conosca il processo: Bompressi, quando il 1° agosto 1988 i giudici Pomarici e Lombardi gli lessero le accuse di Marino, restò a lungo in silenzio e scoppiò in un lungo pianto. I magistrati gli chiesero se intendesse confessare. Bompressi chiese qualche giorno per pensarci su. Ma poi, dopo aver ricevuto la visita in carcere di molti ex compagni e qualche parlamentare del Psi e dei Verdi (tra cui Boato), cambiò completamente atteggiamento e negò tutto, in perfetta sintonia con Sofri e Pietrostefani. La fonte non è «mia» né «riservata»: è la requisitoria del pm Pomarici alla Corte d’Assise di Milano.

Grazie a Dagospia 19 Dicembre 2006