29/08/10

I tramestoni del music business parlano della musica.

Dalle interviste che riprendo, con alcune sforbiciate per renderle più snelle in un solo
 post, a parte Roberto Rossi Gandolfi, che non conosco e che mi sembra dice cose che comprendo, gli altri sono sia pure su differenti livelli di ingresso, dei tramestoni del mondo degli affari e della musica. Tramestoni, nel senso di gente che sia per studi, progetti e intenti di tipo industriale, o per motivi differenti, ancora meno comprensibili, dopo aver trascorso del tempo a fare musica in un complessino e a ascoltare e leggere di musica, si mettono a volersi industriare per trarne profitto in un modo o nell'altro.
Che queste figure ci siano sempre state e sempre ci saranno, lo sappiamo tutti, ma al tempo stesso, penso e pensiamo che se uno è un valido musicista e sa suonare sul serio, se possiede orecchio e creatività sufficienti, in qualche modo, riuscirà a farsi conoscere e apprezzare, indipendentemente dai tramestoni del mercato, dei passaggi in certe radio, veri strumenti della promozione a pagamento occulta (neanche tanto) e della mafietta degli organizzatori di concerti ed esibizioni (e la conosciamo bene e da tantissimi anni).
In queste domande, rivolte da ragazzi di un liceo, non sono comprese quelle che avrei fatto io e quelli come me. Un esempio: quando dici, promuovere un disco, ad esempio attraverso i media, radio, tv, riviste, cosa si fa e come in concreto?
Si cacciano fuori dei soldi e si paga, e così uno ti passa la canzoncina in radio, oppure si manda semplicemente il CD alla radio e se quelli che ci sono lo decidono, lo passano? Poi ci sono altre domande ma non ne faccio altre. Ma ricordo che sulle riviste del settore, Ondina di Carlo Siliotto, al tempo ti veniva sbattuto in faccia una pagina si e una no dal 1979 a tutto il 1980. Ancora oggi, nessuno ha mai capito come facevano quelli di Venditti a tirar fuori tanti soldi da comprare pagine intere sul Ciao2001 e altre riviste.
Quei pazzi dei Nirvana, tra una pulitura di scale e altri lavoretti, si stipavano dentro il furgoncino dellle pulizie e ogni Venerdì e Sabato, si esibivano distribuendo magliette e i loro Cd, stampati in proprio. Mi ricordo i loro commenti quando stavano per imbarcarsi sull'aereo, in Canada, mentre scendevano i componenti di un gruppo famoso, affiancati da scorta, uomini della sicurezza, Rolls etc. Erano solo delle me..e, dicevano, paccottaglia.

Intervista a Paolo Maiorino.

Cosa facevi prima di entrare nel mondo della discografia?
“Nel 1987 mi diplomai in Ragioneria e decisi di partire per gli Stati Uniti: mi iscrissi
 alla facoltà di giornalismo dell’Indiana. Mi laureai in music Business nel 1989. Nel frattempo avevo iniziato a collaborare con la rivista “Chitarre”: cercavano un esperto di hard-rock e io capitai al momento giusto. In seguito lavorai alla rivista “Metal Shock” per la quale, tra il 1987 e il 1990, scrissi l’80% dei testi. Scrissi anche per “Tuttifrutti” e “Flash”. Negli stessi anni cominciarono delle collaborazioni con “Video Music”, prima come corrispondente dall’America e poi come inviato. Dal 1990 tornai in pianta stabile in Italia e, oltre a mantenere i vari rapporti di collaborazione appena citati, iniziai a lavorare anche per Radio RAI.”
Alla RAI di cosa ti occupavi?
“Non ci crederai ma, a quel tempo, la RAI non disponeva di una persona che parlasse fluentemente l’inglese.
nel 1992, entrai a far parte della scuderia EMI, a Roma. Lavorai lì per 3 anni, gestendo le etichette distribuite, che comprendevano artisti come Queen, Pink Floyd, Marillion, Stadio.”
Dopo l’esperienza EMI dove migrasti?
“Alla Sony, vestendo la carica di responsabile Columbia per Roma e centro-sud Italia. Furono anni straordinari per la discografia, grazie ad artisti come Maria Carey, Michael Bolton, Aerosmith. In quel periodo mi avvicinai molto al mercato italiano, lavorando con De Gregori, Fossati, Mannoia, Bluevertigo, Paola e Chiara. La svolta avvenne nel 1997, quando mi trasferii a Milano, come capo della promozione della Columbia Record per Sony.”
Come si promuove un artista?
“Dipende dall’artista, cioè se è un emergente che va “creato” dal nulla oppure se si tratta di un nome da rilanciare. Facciamo qualche esempio. Quando ascoltammo per la prima volta l’audizione di Paola & Chiara restammo colpiti dalle loro capacità, ma ci rendemmo conto che il loro talento andava amalgamato e gestito in modo opportuno, in modo da valorizzarlo evitando pregiudizi o detrazioni a priori. Le Vibrazioni rappresentarono un altro caso particolare: il feedback del mercato era ottimo; loro, in modo non convenzionale, non erano emersi grazie ad un singolo di successo, ma grazie ad un video.
Quali sono le regole operative del buon discografico?
“Innanzitutto deve capire subito a chi è destinato un certo prodotto. Se sbagli target hai fallito. Individuare i destinatari finali non significa pilotare il lavoro dell’artista o manipolare i gusti del pubblico. Promuovere significa anche stabilire le strategie in base alle potenzialità del disco e dell’artista, fissando dei punti precisi.”
Quali sono, oggi, i parametri che permettono di dire: questo è un disco di successo?
“È lo stesso di sempre: le emozioni che la musica sa suscitare. Solo se un disco entra nel cuore della gente diventerà un prodotto di successo. Ci sono tantissimi artisti che sanno scrivere belle canzoni ma che non hanno potenziale commerciale e quindi, per forza di cose, su di loro non si investe. È necessario ricordare una cosa fondamentale: le case discografiche non sono istituzioni benefiche, lavorano sì per la cultura della musica ma devono fare scelte commerciali ben precise che garantiscano la sopravvivenza dell’azienda. È importante dare un’opportunità ad artisti di rottura e innovativi come Ivan Segreto, L’aura o Morgan che riprende in mano l’opera di De André, ma non va dimenticato che hanno un’incidenza relativa sul mercato. Come discografico non sento la responsabilità primaria di promuovere un prodotto di qualità artistica elevatissima: lavoro anche per dare alla gente quello che vuole. E se questo significa proporre un album che non è ai vertici della creatività, lo faccio.”
Qual è l’aspetto che ti piace di più del tuo lavoro?
“Il saper individuare una buona canzone ed il riuscire a presentarla in modo adeguato ai nostri interlocutori, ovvero i media (e non il pubblico). E il rendersi conto che, come ti dicevo prima, il compito della musica è suscitare emozioni, prima di tutto in noi discografici che poi, attraverso il nostro lavoro, trasferiamo queste emozioni alla gente.”

Intervista a Roberto Gandolfi

Nota Tribe magazine è cessato dal 2008; l'intervista è del 2005. Premetto che è un nome che non ho mai sentito prima, e non ho mai visto le riviste che dirigeva. Aggiungo che sul web non ho reperito nulla in merito.
Uscito dalla radio feci un provino a L'Unità e venni assunto. Le persone che valutarono le mie competenze erano attente, equilibrate, capaci e lavoravano in un ambiente privo della competitività che si sarebbe sviluppata negli anni a venire. Si fidarono di me e mi diedero libertà di azione, cioè di scrittura: divenni il critico musicale de L'Unità.Il mio percorso si sviluppò in seguito sui maggiori quotidiani nazionali, passando per La Repubblica e arrivando, in epoche recenti, al “Messaggero”, testata per la quale sono stato a lungo il corrispondente da Milano per quanto riguarda la rubrica cultura e spettacolo.”
Lavoravi anche per i magazine musicali?
“Iniziai di lì a poco. Nei primi anni della mia carriera, infatti, compresi che, se volevo ampliare il mio raggio d'azione ai periodici, dovevo studiare quello che producevano i maggiori gruppi editoriali. I due giornali più importanti erano Rockstar e Ciao 2001. Il primo era raffinato e selettivo, con un pubblico più ristretto. Il secondo aveva un bacino di utenza molto più ampio. Chiamai entrambi e mi proposi.”
Qual era l'oggetto della tua proposta?
“Interviste e servizi realizzati negli Stati Uniti, perchè nel frattempo ero volato oltreoceano e, grazie ad un pass de L'Unità -un pass che, in realtà, non mi dava alcun diritto, ma non se ne accorse nessuno!- riuscii ad intrufolarmi ad una serie di concerti, facendo molte interviste. Le proposi ai magazine sopra citati. “Rockstar” mi disse un vago mah, vedremo, le faremo sapere.... Maria Laura Giulietti, caporedattrice di “Ciao 2001”, invece, fu molto più pragmatica e diretta. Mi disse: non perdiamo tempo, ti do sette giorni per scrivere un pezzo di lunghezza tot...mandacelo e, se va bene, ti richiamiamo.”
Sembra un film. C'è anche il lieto fine?
“Sì: mi richiamarono. Maria Laura, che era anche conduttrice radiofonica e produttrice musicale affermata, mi cercò senza fortuna per 3 giorni. Quando riuscì a parlare con me mi redarguì: Allora! Sono tre giorni che ti cerco! Dov'eri?!? Sai, all'epoca non c'erano fax o cellulari: c'era mia sorella che rispondeva al telefono e non mi passava le telefonate perchè ero sempre in giro. Il rapporto professionale e umano con Maria Grazia continua tutt'ora. Da lei ho imparato molte cose, con estremo rigore e con la spinta a superare sempre i miei limiti.”
Sia Ciao2001 che Rockstar pubblicavano lunghi articoli sulle band musicali più importanti del panorama nazionale ed internazionale, dalla PFM ai Doobie Brothers. Evidentemente la gente voleva questo. Oggi il gusto del pubblico è cambiato?
“Completamente. Il giornalismo musicale del Ciao 2001 di Maria Grazia Giulietti era di approfondimento, molto vicino ai gusti popolari e, allo stesso tempo, di altissimo livello qualitativo. Vicino all'impostazione del celebre Rolling Stone, con meno pagine e, in più, rubriche di dialogo aperto con i lettori. I redattori di Rockstar avevano una mentalità più britannica, insomma scrivevano principalmente per loro stessi. Ma il dato fondamentale è che ai tempi (anni ‘'70 e '80) c'era un livello di attenzione, analisi e preparazione culturale legato alla musica molto più profondo e appassionato di oggi.
Quali sono le ragioni secondo te?
“La passione è stata appiattita, affossata, annientata da un'offerta eccessiva e priva di contenuti. Nel migliore dei casi, fino a qualche anno fa, trovavi chi faceva bene del costume musicale e chi lo faceva male. Oggi, in Italia, solo testate come Rolling Stone propongono un format (all'americana) di approfondimento, ma quante riviste ci sono così? E non può essere altrimenti: le nuove generazioni non hanno più interesse a leggere otto pagine su una rockstar o su una band, perchè vivono con il telefono in mano, ascoltano la musica via telefono, navigano -molto spesso- con il telefono, giovcano con il telefono, scaricano la suoneria e copiano i dischi. E danno un valore della musica collegata alla gratuità del supporto, per tanti fattori che sarebbe lungo elencare.”
A cosa porta tutto questo?
“Ad un impoverimento, rispetto al quale le istituzioni hanno una colpa enorme. Pensa solo alla scuola italiana e a come è stata ridotta, pensa a come trattano la cultura. Anche l'atteggiamento passivo e disattento delle famiglie non è privo di colpe. E, purtroppo, anche noi giornalisti musicali abbiamo le nostre.”
Come hai formato il team di lavoro di Tribe?
“Puntando a dare vita ad una redazione affiatata, di persone che vanno d'accordo, e che conoscono reciprocamente le potenzialità e le qualità del lavoro degli altri in squadra. Sono professionalmente amici e operano per dare vita ad un prodotto di qualità. Dal mio punto di vista il team deve avere libertà di azione, sì, ma deve andare nella direzione che ho deciso io. Potrei usare l'immagine figurata del padre-padrone. Sono una persona rigida nella disciplina, ma d'altra parte do spazio, lascio lavorare le persone. Anzi! Le spingo a buttarsi, ad osare perchè è dal confronto sul campo che si ottiene maturazione professionale e personale. Ricordando quello che mi hanno insegnato in gioventù: avere il coraggio delle proprie opinioni, esprimerle in modo chiaro e sicuro, prepararsi a difenderle se è necessario.”
Tu come riesci a stare sempre vicino, anzi, dentro alla musica?
“Tribe interpreta le tendenze e coglie in anticipo le tendenze a venire. Questo è il suo scopo. Per capire ciò, il mio livello di attenzione sul mondo -musicale e non- del target di riferimento è elevatissimo. Per quanto riguarda la musica, ascolto tutto quello che esce. Dividendo l'ascolto. Con la pila di cd sul tavolo cerco subito di farmi un'idea, ascolto un paio di brani e mi dico: è in target con il nostro pubblico oppure no? E divido i cd da ascoltare in modo approfondito -e da far confluire nel magazine- da quelli da posticipare ad un secondo momento.”
Ma dove trovi il tempo di ascoltare musica?
“Di tanto in tanto -ma succede davvero raramente- mi prendo un giorno sabbatico, mi chiudo in ufficio e passo anche 10 ore ad ascoltare dischi su dischi. Di solito ricavo il tempo dove il tempo non c'è o quasi: in macchina, a casa, tra una riunione e l'altra.”

Intervista a Fabrizio Rioda
Fabrizio Rioda è un musicista, un produttore discografico, un esperto di marketing strategico ma, soprattutto, è un visionario: concepisce idee che – di primo acchito - sembrano fantascientifiche o semplicemente irrealizzabili ma poi, grazie ad una professionalità ineccepibile, si trasformano in progetti e infine vengono realizzate con successo. (naturalmente lo dicono al momento dell'intervista, roba loro).

Uno studio classico?
"Non proprio. All'inizio c'era la possibilità di incidere ma esistevano -ad esempio- anche sale da ballo. Ma di lì a poco ho focalizzato l'attenzione unicamente sulla musica. Trovammo uno spazio in un ex-capannone industriale dismesso e ci mettemmo al lavoro, ristrutturandolo da cima a fondo: erano nati gli studi Jungle Sound. Creammo una struttura perfettamente funzionale. Per una fortunata coincidenza, di lì' a un anno molte etichette importanti (le cosiddette major) crearono le loro "finte" etichette indipendenti, come la "Black Out". Jungle Sound puntò sulla discografia e realizzammo produzioni di buon successo, come Karma e Scisma."
Lavoravate anche su commessa?
"In un certo senso sì. Ad esempio un produttore esecutivo si rivolgeva a noi e ci chiedeva di realizzare un prodotto finito, ovvero un disco completo. Noi lo facevamo, coprivamo tutte le fasi del processo produttivo e consegnavamo il prodotto finale. E' stato così per molti lavori di band o artisti affermatissimi, dagli 883 a Gianna Nannini ad Alex Britti.Ma sul finire degli anni '90 le cose cominciarono -purtroppo- a cambiare."
Ci chiedemmo: a chi può servire la musica? Chi può permettersi di pagarla o comprarla? Come facciamo ad incassare e a far girare i soldi? Così decidemmo di seguire la strada degli spot pubblicitari, che si rivelò vincente grazie alla formula che avevamo approntato: il nostro punto di forza era il data base di musicisti che potenzialmente potevano lavorare per noi, un vero e proprio polmone artistico che, alla stregua di una serie di staff esterni, avrebbe realizzato brani ex-novo, prodotti da noi. Stringemmo rapporti con clienti come la nascente compagnia telefonica "3", poi arrivarono anche grandi nomi come Nestlé e Ferrero. Lavorammo sempre in outsourcing, cioè noi acquisivamo la commessa e gli artisti realizzavano la musica."
A questa attività in seguito si affiancarono altre iniziative?
"Il lavoro di consulenti musicali, che svolgemmo e tutt'ora svolgiamo per clienti come Unilever (proprietaria dei marchi Algida, Findus, ecc) o Unicredit. La nostra attività di consulenza si basa su un know-how che le aziende non possiedono, perchè il mercato musicale è fatto di piccole, complicate regole che noi -vista la nostra esperienza pluiriennale- conosciamo bene.
Abbiamo iniziato con l'Heineken Contest, un grande evento nato per dare alle band –soprattutto emergenti- la possibilità di esibirsi. La location scelta è stata Imola. L'edizione iniziale si è tenuta nel 2005. La selezione delle band finaliste è durata 45 giorni (nel corso dei quali abbiamo ricevuto ben 1600 iscrizioni!). Sono state selezionati 15 gruppi: 3 destinati al main stage, gli altri 12 al palco "b". E' stato un grande successo e Heineken ha deciso di abbracciare la nostra nuova proposta: un tour in 15 locali italiani selezionati, nel corso del quale le band avranno una grande occasione di visibilità. Un pool di giornalisti e professionisti selezionerà il gruppo migliore, che avrà diritto a 30 giorni di sala d'incisione, per poter realizzare un album come si deve. Insomma, musicalmente parlando è una cosa seria."
Come funziona il "Palco di Alice"?
"C'è un piccolo studio con la regia e la sala dove si esibisce la band, ripresa dalle telecamere e trasmessa in diretta online. Al momento è possibile collegarsi solo dall'Italia ma confidiamo, in futuro, di estendere la possibilità all'estero. In contemporanea è partito anche un vero e proprio contest online, una gara dove le varie band si esibiscono e chi sta a casa, davanti al proprio computer, esprime il voto di preferenza. Fatto a 100 il totale dei voti, il 50% starà agli utenti, l'altro 50% ad una giuria di qualità.
Qual è dunque l'obiettivo di Jungle Sound oggi?
"Quello di diventare una azienda della musica a 360°, che offra servizi agli utenti, ai produttori, agli artisti, agli addetti ai lavori e soprattutto alle aziende, che in noi possono vedere un partner importante nell'ambito del marketing strategico legato alla musica. Le buone idee non ci mancano e, anche se a volte sembrano fantascientifiche, prima o poi riusciamo sempre a realizzarle."


Intervista a Ezio Guaitamacchi

Premetto che il personaggio mi sta veramente sullo stomaco e non lo ritengo:
né un bravo musicista, né un bravo critico musicale, né un valido organizzatore o commentatore o conduttore di programmi e roba sulla musica, né uno scrittore di libri su tematiche musicali di qualche significato. Quanto alla direzione e produzione, grazie a dio non ne so nulla (ma immagino che preferirei ascoltare le produzioni di Alberico alle sue e se mi capita lo farò).
Ezio Guaitamacchi è una delle figure di riferimento nell'ambito dell'editoria musicale milanese. Negli anni '80 è tra i fondatori della rivista “Hi Folks”, dedicata alla musica country e rock. Sul finire del decennio successivo dà vita ad un nuovo progetto editoriale di successo, la rivista “JAM” che mese dopo mese informa in modo approfondito e attendibile migliaia di appassionati di pop e rock, con interviste ai musicisti, reportage, recensioni di album e concerti. Intorno a JAM ruotano molti progetti, come gli speciali “Rockfiles” dedicati -di volta in volta- a figure fondamentali della musica degli ultimi 40 anni, come Bob Dylan, Jimi Hendrix o Kurt Cobain. All'attività editoriale Ezio affianca anche quella di musicista, insegnante, scrittore e relatore a conferenze o seminari.

.... Fui io a scoprire, nel corso del mio primo viaggio in America (1976) che il banjo utilizzato nel country ha...5 corde! Tornai in Italia portando la grande rivelazione: è questo il banjo che viene usato nella musica che ci fa impazzire!”
Insomma, se uno voleva delle informazioni doveva mettersi in viaggio!
“Eh sì, altrimenti non ti restava che brancolare nel buio. Almeno fino a quando non capitava che -per caso o per fortuna o per tutt'e due le cose- l'informazione chissà come arrivasse.”
Trovare i dischi che ti interessavano era facile o difficile?
“A volte era semplicemente impossibile. Nei primi anni '70, giusto per farti un esempio, a Milano i dischi di Neil Young erano irreperibili! E dovevo andare a Gallarate, al negozio di Paolo Carù (che in seguito fonderà la rivista “Ultimo Buscadero”) per riuscire a trovarli, visto che li importava direttamente. Non ti dico se andavo a cercare delle cose di nicchia. Alla fine degli anni '70 mi avvicinai al folk irlandese e al bluegrass: non c'era nulla!”
Esistevano le riviste musicali per appassionati come te?
“Negli anni '70 c'era tutto il comparto delle riviste alternative, come “Gong”, che tuttavia avevano una forte connotazione politica, mentre a me interessava principalmente la musica. In seguito arrivarono “Popster” e “Mucchio Selvaggio”, mentre la storica “Ciao 2001” seppe adattarsi ai cambiamenti in atto e si rinnovò profondamente. Ecco, queste erano le nostre fonti di informazione.”
Parlando di concerti veri, qual è il primo grande concerto di cui hai memoria?
“Jethro Tull, 1972, era il tour di “Aqualung”. Avevo solo 14 anni (e infatti andai al concerto al seguito di mio fratello, che ne aveva ben 19!). Fu indimenticabile, uno shock assoluto.” (Nota: anch'io c'era, li vidi, a Bologna: supporter, Gentle Giant, forse meglio anche dei Jethro. Però avevo già finito i 15 anni).
...Oggi, come tutti sanno, le case discografiche pensano che se un disco non passa in radio non venderà e corteggiano, anche in modo imbarazzante, le emittenti radiofoniche, che poi -alla fine- trasmettono tutte la stessa musica. Addirittura si sono inventati il “music control”, questo indice che serve per valutare qual è l'efficacia di un certo brano. Tutte cazzate. La riproducibilità della musica consente all'ascoltatore di fruirne ogni qual volta lo desideri. È una posizione passiva, forse, ma è il punto di forza: è l'ascolto della musica a determinare l'esistenza della musica stessa. Oggi negli Stati Uniti le Jam Band hanno fatto capire alla gente che il concerto è unico ed irripetibile. Quindi lo registrano e lo mettono in vendita: lo stesso brano non verrà eseguito allo stesso modo nelle performance successive. E grazie agli attuali strumenti di comunicazione (internet su tutti) è possibile informare molte persone di quanto accaduto nei vari concerti, in tempo reale o quasi. Oggi gli artisti hanno la grande occasione di lavorare con i tecnici per far progredire davvero l'arte. Anche se non va dimenticato che le arti non sono sempre in evoluzione. Ci sono periodi bui e altri luminosi. Se pensi al pop-rock, la “golden-age” c'è già stata, ma il livello si mantiene alto. Certo, ci sono tanti prodotti minori in giro, ma non bisogna farsi condizionare da questo: la buona musica c’è e continua ad esistere.”

Intervista a Marco Conforti

Casi Umani è una società di consulenza artistica, gestionale, marketing e commerciale attiva a Milano dal 1993. In particolare Casi Umani è specializzata nell’elaborare e gestire progetti di marketing che prevedano l’incontro tra partner artistico-editoriali (artisti, etichette discografiche, editori, produttori culturali, festival ed eventi in genere) e partner industriali e commerciali che abbiano l’esigenza di utilizzare la musica o, più in generale, contenuti culturali e di entertainment per le proprie attività di marketing e comunicazione.
In questi anni di attività Casi Umani ha sviluppato e gestito le carriere artistiche di alcuni tra i protagonisti della nuova scena musicale italiana, tra i quali Elio e le Storie Tese, Neffa, Sottotono e Casino Royale, e ha ideato e realizzato progetti di marketing, eventi, produzioni media ed editoriali per marchi come Adidas, Ballantine’s, Istituto Europeo di Design, Red Bull, Virgilio e molti altri.

La realizzazione degli “instant CD” di Elio e Le Storie Tese, ovvero la registrazione di un concerto venduta la sera stessa è nata due anni fa. Cosa bolle in pentola oggi?
“Dall’anno scorso diamo al pubblico anche la possibilità di scaricare direttamente un concerto in un proprio supporto digitale, che sia l’iPod, il comune lettore MP3 o la chiavetta USB. È l’instant dowload. Questo livello di commercializzazione del prodotto-concerto di Elio e Le Storie Tese nasce da un’opportunità maturata alcuni anni fa, quando decidemmo di renderci indipendenti dalle case discografiche per poter lavorare in modo libero sulla musica.”
Questo significa che un gruppo sotto contratto con un’etichetta non ha libertà di azione?
“Sì, l’indipendenza è una condizione imprescindibile. Le case discografiche detengono, cioè possiedono tutti i diritti sulla produzione e divulgazione dell’opera dei loro artisti, e decidono cosa si può e non si può fare. Noi ci siamo emancipati da questo vincolo e poi abbiamo analizzato, studiato, progettato e infine realizzato un modello che aveva ed ha l’obbiettivo di attivare delle linee di ricavo dirette.”
Cosa intendi?
“Instaurare un rapporto che unisce e mette in comunicazione diretta l’artista e l’utente finale, come dire dal produttore al consumatore. I concerti radunano fisicamente all’interno di un’area definita il pubblico. Internet raccoglie intorno ad uno stesso sito un mondo di fan, grazie ad un canale immateriale equipaggiato, se non nato, per garantire il rapporto diretto tra i navigatori e il gestore del sito stesso. Noi, come Casi Umani, abbiamo ideato delle iniziative che sono coincise con la produzione di instant cd e instant download.”
ma ne rallentano la diffusione.”
Come vedi l’esperienza di Apple, che ha fornito una piattaforma efficiente ed ha incentivato la vendita di brani online?
“Bene, perché Apple ha integrato hardware e software in modo intelligente e funzionale, facilitando i processi commerciali legati alla musica via internet. Ma la maggior parte delle altre aziende ha solo cercato di limitare, bloccare o denunciare chi scaricava illegalmente. I diritti degli artisti vanno protetti, ma blindare tutto non è la soluzione. Anzi, questo tipo di soluzioni danneggiano i consumatori che, dal canto loro, se non trovano i contenuti legalmente, ovviamente scaricheranno illecitamente. Sono convinto che quando si sviluppa un mercato legale, perlomeno nel mondo civile, c’è un assestamento fisiologico tra chi sguazza nell’illegalità e chi, invece, preferisce stare nella legalità.”
Qual è il punto di arrivo del vostro percorso di innovazione?
“Lavorare nel business della produzione e diffusione di contenuti artistici. In Italia nessuno fa Ricerca & Sviluppo in questo senso e allora provvediamo per conto nostro. Noi abbiamo cercato l’indipendenza per poter lavorare e poter dare vita a nuovi canali di diffusione del lavoro dei nostri artisti. Siamo in una posizione privilegiata perché, come Casi Umani, rappresentiamo un insieme di forze: artista, casa discografica e soggetto che produce lo spettacolo.”
Ci sono altri che vanno nella vostra stessa direzione?
“Il sistema della musica, in questo momento, non mostra la volontà di seguirci sulla stessa strada. Nessuno vuole rinunciare alla garanzia di un contratto discografico e autogestirsi, autoprodursi, autodistribuirsi.
Elio e Le Storie Tese non stipuleranno mai più contratti con delle etichette. Non ci sono discorsi ideologici alle spalle, ma ragioniamo in termini molto pratici: gli spazi si restringono, gli investimenti anche e bisogna reagire. Il nostro modello, ne sono convinto, si imporrà con la forza della necessità.”